Catania appare oggi al visitatore accorto come una
città nuova. Dal punto dì vista urbanistico e architettonico, il
1693 è il suo anno di nascita. Le strade larghe e dritte, dalla
maglia ad angoli retti; i palazzi e le chiese uniformi per stile,
decorazioni e materiali; l'impiego coerente della lava nera e della
pietra calcarea chiara; l'impianto scenografico di luoghi come la
piazza del Duomo: tutto fa pensare ad un progetto organico, e dà un
senso preciso alla definizione di barocco catanese. Eppure, non solo
la ricostruzione prese lo spazio di diverse decine d'anni, ma
moltissimi edifici vennero rimaneggiati, sopraelevati, completati,
ancora ai primi dell'Ottocento.
Il
fatto cruciale fu la decisione di intervenire subito con un progetto
complessivo.
Il viceré Giovan Francesco Paceco duca di Uzeda,
uomo di cultura e di interessi scientifici, si trovò di fronte al
compito di ricostruire ben 77 città, alcune delle quali di
importanza militare preminente, come il porto di Augusta. Affidò
quindi l'incarico di vicario generale per il Val di Noto a
Giuseppe Lanza duca di Camastra.
Catania appariva
totalmente distrutta. A far pendere la bilancia verso la decisione
di ricostruire sullo stesso luogo fu l'esigenza di non abbandonare
le fortificazioni.
Il duca di Camastra si servì di tecnici e ingegneri
militari per sgomberare le macerie, prendere iniziative contro i
predoni e nutrire la popolazione.
Nel giugno del 1694, col concorso d rappresentanze di tutti gli
ordini di cittadini, egli approntò il piano generale.
Una linea ideale divideva la città in due parti, assegnando ai
terreni due diversi prezzi convenzionali: quella ad ovest, in cui il
prezzo dei terreni veniva scontato di circa un terzo, fu destinata
ad accogliere, come già prima, i quartieri popolari; verso est si
concentravano invece gli edifici della nobiltà laica ed
ecclesiastica. Le strade larghe, interrotte da piazze frequenti e
regolari, costituivano una precauzione antisismica. Furono definiti
gli assi viari principali, sovrapponendo delle linee rette
all'antico corso tortuoso delle vie e sottolineando, nella parte
ovest del Corso, l'antico impianto della città romana.
Il fervore della ricostruzione dà il tono alla vita di Catania
settecentesca; per decenni essa è tutto un cantiere, che attrae
popolazione e maestranze, che mette in moto l'economia, che apprende
nuove tecniche e le dissemina a sua volta.
Una esperienza preziosa per gli architetti, come i catanesi Alonzo
di Benedetto e Francesco Battaglia, Girolamo Palazzotto da Messina,
il palermitano Giovan Battista Vaccarini, e poi il toscano Stefano
Ittar e tanti altri. Tra tutti il Vaccarini è forse quello che ha
lasciato il segno più netto, sia per il gran numero di edifici da
lui curati che per il lungo periodo del suo operare a Catania.
Certamente l'immane sforzo di ricostruzione si dovette ai cospicui
investimenti edilizi resi possibili dalle rendite feudali accumulate
dalle grandi famiglie, dalla Chiesa, dagli ordini religiosi
(particolarmente impressionante l'impegno dei Benedettini nel
riedificare il monastero di San Nicolò l'Arena col tono di una vera
e propria reggia).
Ma fu così che la città poté superare la crisi dei primi decenni del
Settecento, che vide la Sicilia passare dal dominio spagnolo ai
Savoia (1713-1720), poi agli Austriaci (1720-1734) e infine alla
nuova dinastia borbonica, e ciò non senza l'inizio di grandi
cambiamenti e grandi speranze, e conflitti anche nell'ordine
religioso, tra Stato e Chiesa.
Il segno più certo di tale vitalità, oltre all'espansione stessa del
tessuto urbano, è la vicenda della cultura.
Vi è innanzitutto l'accresciuta importanza dello "Studio" -
l'Università -, che sotto il prevalente impulso di medici e giuristi
già fin da prima del terremoto aveva posto le basi per una nuova
sede e una espansione; il suo palazzo è ora tra i primi a dare nuovo
prestigio alla riorientata via Uzeda (oggi via Etnea), collocandosi
a mezzo tra il palazzo comunale e la chiesa della élite dirigente,
quella di S. Maria dell'Elemosina (Collegiata), ricostruita sullo
stesso luogo ma riorientata in modo da affacciarsi sulla nuova
strada principale. L'Università è terreno di conflitto tra la
direzione ecclesiastica e quella laica, in un'epoca in cui i governi
cominciano ad avocare a sé il controllo della cultura. Proliferano
perciò i centri privati di studio, le biblioteche private, le
associazioni, le accademie. La terribile esperienza del terremoto e
l'incombere del vulcano indirizzano il dibattito culturale verso un
progresso concreto delle scienze geologiche, mineralogiche,
vulcanologiche; si supera così la strettoia della disputa tra
scienza e fede, e con l'opera del canonico Giuseppe Recupero
(1720-l778) si pongono i fondamenti di un ricco patrimonio nelle
scienze naturali che sarà continuato nell'Ottocento.
Personalità dominante è quella del principe di Biscari,
Ignazio II Paternò Castello (1719-1786).
Figura di livello europeo, archeologo, antiquario, predispose una
biblioteca e soprattutto un Museo che riscossero l'ammirazione di
tutti i visitatori e divennero centro di studio e di ricerca.
Gareggiava con questa gran collezione privata la biblioteca e il
museo dei Benedettini, anch'essi centro di discussione e di studi
classici, filosofici, storici, naturalistici. Lo storico
Vito Maria Amico (1677-1762) e più tardi il naturalista
Emiliano Guttadauro (1759-1836) ne sono tra i nomi
più rappresentativi.
Né è da sottovalutare l'attività del vescovo
Salvatore Ventimiglia, fondatore di una ricca biblioteca
poi lasciata allo Studio; così come meritano un ricordo figure quali
Nicola Spedalieri (1740-1795), l'ingegnere
Giuseppe Zahra Buda (1730-1817), proveniente da Malta, che
riuscì a risolvere il problema della costruzione di un molo nel
porto; o il naturalista Giuseppe Gioeni d'Angiò
(1747-1822), cui si intitolò una celebre Accademia. Giuseppe Geremia
(1732-1814), musicista amico di Paisiello rappresenta la continuità
di una cultura musicale che avrebbe dato i suoi frutti nel secolo
successivo.
Si viene formando così un ambiente culturale vivace, che soprattutto
verso la fine del secolo sarà percorso dai fermenti innovatori,
laici e democratici sintetizzati dal periodo catanese del grande
riformatore Giovan Agostino De Cosmi. Grazie a questi ambienti,
Catania viene definendosi come la città giacobina, borghese e
democratica che si manifesterà nel secolo successivo.
La significativa espansione demografica (nel 1798 essa conta già 45
mila abitanti), la concentrazione di importanti attività economiche
soprattutto nel settore tessile (seta), e il controllo della
campagna circostante fanno del Settecento il periodo in cui Catania
supera definitivamente altri centri rilevanti del suo hinterland:
Acireale, Paternò, Lentini, Caltagirone.
Dopo il 1770, tuttavia, l'attività
edilizia rallenta di molto; incompiuto resta il monumentale edificio
dei Benedettini.
Il 1764 ha visto la città devastata, col resto
dell'isola, da una terribile carestia.
I privilegi che consentono alla nobiltà di controllare produzione ed
esportazione di grano tendono a rafforzare le posizioni
dell'aristocrazia, e a stabilizzare l'economia del latifondo.
Questo, per Catania, significa soprattutto il maggiorato potere di
chi, come i principi di Biscari, domina la Piana.
Si apre, come per il resto della Sicilia, una questione feudale, che
esplode per le riforme tentate sotto il viceregno di Tanucci e, dal
1781, di Caracciolo.
Gli anni delle guerre napoleoniche nel Mediterraneo sono per la
Sicilia gli anni della occupazione inglese e della trasformazione
costituzionale con la fine giuridica del feudalesimo. La città di
Catania non sembra riuscire ad agganciare la congiuntura commerciale
positiva che nel suo stesso territorio permette invece all'area del
vigneto, tra Mascali ed Acireale, di accumulare ingenti ricchezze
trafficando i vini etnei con l'esercito britannico. Nonostante gli
sforzi compiuti già da prima del terremoto non è riuscita a superare
gli ostacoli tecnici per la costruzione di un porto.
Nel 1798 e 1799 Catania è scossa da rivolte popolari per il pane. Si
profila la crescita di uno strato popolare ribelle, anche se ciò non
dà luogo ad alcun movimento rivoluzionario sul modello francese; ché
anzi nel 1799, a Caltagirone, ha luogo un massacro dei giacobini,
esemplare anche se di non chiara interpretazione.
La cultura cittadina percepisce questo disagio e se ne fa
interprete, in figure come l'irregolare poeta-filosofo
Domenico Tempio (1750-1821) o nella fitta schiera di filo
giacobini cresciuti alla scuola del De Cosmi: Giovanni
Nepomuceno Gambino (1761-1848) che dovette fuggire in
Svizzera dove fu vicino a Filippo Buonarroti; Francesco ed
Emanuele Rossi, Vincenzo e Carlo Gagliani,
Giuseppe Rizzari. Da questi gruppi escono i
deputati catanesi al Parlamento siciliano, i quali, tra il 1810 e il
1815, si schierano con l'ala più radicale.